Sguardo ittico

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Sguardo ittico è una rubrica del magazine digitale La Biblioteca delle Isole e racconta la Laguna di Venezia attraverso le storie e le illustrazioni di Luigi Divari, autore, illustratore acquerellista, esperto di pesca e navigazione lagunare.

Questi gli episodi usciti nei numeri del magazine fin qui pubblicati, distribuiti a oltre cinquemila iscritti tramite newsletter.

 

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Strumenti redazionali e contenuto evoluto
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Testo e illustrazione: Luigi Divari, 2020, Quattro Risi. Piatti e storie di vecchia cucina veneziana, Il Leggio, Chioggia.

A Chioggia, massimo centro della pesca alto-adriatica, per almeno due secoli una importante quota delle seppie più grosse pescate in primavera veniva destinata all’essicazione. Tale metodo di conservazione, documentato già nel Quattrocento, serviva alla successiva esportazione verso la Grecia, ad uso e consumo, per i giorni di magro, dei cattolici ortodossi delle isole Ioniche e del Peloponneso. […] La seppia secca resta commestibile per molti mesi, ma perde ogni buona qualità come cibo, diventando dura e scura come cuoio, il che richiede buone capacità masticatorie. I pescatori, dopo averla abbondantemente bagnata, usavano metterla solo tra la cenere del camino, o sulla graticola, dove col calore un poco si ammorbidiva, e poi tagliata a striscioline, la condivano con olio e pepe. Un cibo che oggi verrebbe considerato appena commestibile, anche se buono per bere diversi bicchieri di vino tra amici, ma non certo per cenare.

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Testo e illustrazione: Luigi Divari, 2020, Quattro Risi: piatti e storie di vecchia cucina veneziana, Il Leggio, Chioggia

"El molame" è il termine, da tempo scomparso, con il quale i vecchi operatori del mercato ittico si riferivano all'insieme delle diverse qualità di molluschi cefalopodi, notoriamente molli, che venivano commercializzate ogni giorno. Delle sette specie presenti nell'alto Adriatico, quelle più abbondanti e importanti per il mercato e per il popolo erano in primis la seppia, secondariamente il polpo moscardino, più piccolo ma molto più abbondante del vero polpo; mentre oggi sono diventate la piovra e, in modo marginale, il calamaro. Importanti perché, in certe stagioni, delle prime due specie se ne vendevano, con prezzi molto contenuti, diversi quintali al giorno; anche se, come la trippa e altre frattaglie gustose per il popolo, non venivano mai presentate sopra tavole raffinate o in banchetti nobiliari, nemmeno come antipasti. A Venezia, come in altre città marittime del Mediterraneo, i polpi (qui solo i moscardini) si potevano trovare facilmente in vendita già cotti, cioè lessati, sul bancone delle osterie dentro grandi catini di ceramica rustica, smaltata internamente di bianco picchiettato di verde e di caratteristica fattura pugliese, noti un tempo in città come i "caini da fólpi". Per strada venivano venduti anche dagli ambulanti, attrezzati di fornello e pentolone, che frequentavano le sagre e i luoghi di passeggio.

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Testo e illustrazione: Luigi Divari, 2020, Quattro Risi: piatti e storie di vecchia cucina veneziana, Il Leggio, Chioggia

In tutti gli ambienti lagunari, l'antica pratica dell'attività venatoria ai soli fini commerciali o alimentari si può considerare coetanea e complementare a quella della pesca professionale, tanto che entrambe furono a lungo esercitate, alternativamente, dalla stessa categoria di personaggi. I nobili, quando cominciarono ad occuparsi delle aree vallive utilizzate per l'allevamento del pesce, vi praticarono per solo diporto la caccia col fucile, dalla botte; ma provvisti di ogni comodità, alloggiando nel confortevole casòn da caccia. [...] Pertanto, il cacciatore di Laguna di un tempo era solitamente un pescatore, che nei mesi invernali, per supplire alla temporanea mancanza di fauna ittica, si guadagnava la settimana cacciando i volatili più mangerecci nel medesimo ambiente delle sue pesche, per una economia di integrazione.

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Testo e illustrazione: Luigi Divari, 2020, Quattro Risi: piatti e storie di vecchia cucina veneziana, Il Leggio, Chioggia

Una cinquantina di anni fa, in Laguna, sugli argini di certe isole dove il terreno era esposto al lavaggio delle maree e delle onde, venivano facilmente alla luce i cocci di vecchie maioliche veneziane di uso quotidiano, come scodelle o piatti. La loro fabbricazione si mostrava piuttosto rustica, bruno ruggine o verde rame, e si potevano stimare mediamente vecchi di quattro secoli […] Non di raro, se ne trovava qualcuno che, sul lato a vista del fondo mostrava, graffito in modo sommario, qualche racemo decorativo e il nome di una delle vivande veneziane di largo consumo popolare. Le due scritte più comuni in assoluto erano ‘rosto’ e ‘sope’ alle quali seguivano ‘brodo’, ‘tripe’ e ‘risi’, mentre sono molto rare quelle relative al pesce. L’arrosto era, come oggi, un piatto di gradimento generale, mentre le zuppe, il brodo e il riso, rispecchiavano la realtà di una abituale prevalenza, tra il popolo, del cucchiaio sulla forchetta, sia a pranzo che a cena, durata poi a lungo.

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Testo e illustrazione: Luigi Divari

Alle origini della pesca in mare per mezzo di reti, sulla costa occidentale dell'Adriatico si adoperava prevalentemente la sciabica (‘trata’ per i veneti), per catturare tutte quelle varietà di pesci che dalla primavera fino all’autunno si accostano notevolmente alla spiaggia, specie nelle ore notturne. In questa attività, esercitata praticamente con i piedi per terra, i rischi del mare erano inesistenti, sia per gli uomini della compagnia, sia per il capitale di barche e di attrezzatura di proprietà dell'armatore. I dettagli costruttivi delle reti variavano poco da una regione all'altra, mentre la forma delle barche mostrava in modo più evidente il luogo di provenienza, e nei tempi in cui il mare conservava la sua naturale ricchezza di specie ittiche, i guadagni portati dalla pesca 'a trata' erano, di stagione in stagione, sempre apprezzabili. Per questi motivi il mestiere non subiva alcuna trasformazione dall'epoca romana fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, quando la pesca a motore e il turismo balneare aprivano nuove e maggiori facilità di guadagno.

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Testo e illustrazione: Luigi Divari

Da poco più di una ventina d’anni è sorta a Venezia una particolare e, sotto certi aspetti, rinnovata devozione culinaria, che si celebra con robuste cene collettive nei soli giorni del 20 e 21 novembre, in occasione della locale Festa della Madonna della Salute. Nella ricorrenza si rinnovano gli antichi festeggiamenti per la fine della più letale pestilenza, tra le tante che colpirono la città, e che con il 1630 portarono all’edificazione, per ringraziamento, di una nuova notevole chiesa, detta appunto della Salute. Il cibo in questione, che in questi giorni ormai impegna molto più gli chef che gli osti e le donne di casa, e ha fatto nascere anche una nobile confraternita di estimatori, in Italia si conosce solo a Venezia, dove prende il nome di castradina. Del tutto sconosciuta anche nella vicina terraferma lagunare e isole, la castradina è vivanda non comune ma occasionalmente preparata, in passato anche nelle nostre aree montane dove si praticava la pastorizia, come nel Bellunese o nel Bergamasco. La Dalmazia e il Montenegro, un tempo Albania Veneta, dove ancora oggi si fa largo consumo di carni e pesci di ogni tipo trattati con fumo così da poter essere consumati per tutto l'inverno, ne erano i principali produttori ed esportatori; e da quei porti, in particolare da Cattaro, le partite di carni fumate, nelle stive dei navigli locali, risalivano l’Adriatico con unica destinazione il bacino di San Marco.